Lo sciopero
del 29 giugno '59:
Torre del
Greco giorno di
colpevole follia
di
Antonio Raiola
Quando si
comincia una ricerca
su un avvenimento
accaduto molti anni
prima lo si fa per
vari motivi:
curiosità, ricerca
della verità,
verifica dei fatti,
con la segreta
speranza che salti
fuori qualche
novità, ma si
procede con molta
cautela e con
l’intento di non
lasciarsi
coinvolgere
personalmente.
Fare una
ricerca significa
mettere assieme le
tessere di un grande
puzzle del quale si
conosce il quadro
finale ma sembra
sempre che manchi
qualche tassello. La
ricerca della
verità, quella con
la V
maiuscola, è molto
difficile, perché vi
sono sempre diverse
verità e ognuno
difende strenuamente
la sua.
Proprio
per questi motivi ho
ritenuto necessario
interpellare qualche
protagonista
superstite. Ormai
sono rimasti in
pochi e tutti hanno
parlato pochissimo,
come per un blocco
psicologico. Ho
parlato con persone
presenti casualmente
quel giorno per
strada ed anche con
coloro che erano
nelle proprie
abitazioni e
tremavano di paura
al suono delle
sirene della
polizia.
Oggi, a
mente fredda, dopo
cinquanta anni di
sedimentazione
storica, di quel
lontano 29 giugno
1959 penso si possa
fare una disamina
quanto più possibile
particolareggiata e
magari azzardare
qualche giudizio.
Prima di
entrare nel vivo
degli
indimenticabili
avvenimenti che
andremo a trattare,
occorre fare una
doverosa premessa.
Siamo nel
1959, e la marineria
mercantile italiana
era in agitazione da
diversi mesi per
sollecitare il
rinnovo del
Contratto di Lavoro.
Per le società
dell’armamento
sovvenzionato non
veniva rinnovato da
quattro anni e per
l’armamento privato
da oltre cinque. Nei
porti italiani e in
quelli esteri del
Brasile, Cile,
Senegal, Stati
Uniti, le nostre
navi erano
praticamente ferme.
C'erano,
inoltre, ragioni di
carattere di costume
e normativo.
A quel
tempo, infatti, per
poter ricevere una
chiamata d’imbarco,
i lavoratori
marittimi erano
soliti stazionare
nell’ufficio di
collocamento
dall’alba fino alla
chiusura. Molti
nostri concittadini,
inoltre, si
trasferivano a
Genova o a Livorno
dov’era più facile
imbarcare. Ma anche
questo sacrificio
non era sempre
sufficiente per
assicurarsi
l’imbarco, perché
molte agenzie
telefonavano ad
ufficio chiuso,
oppure inviavano il
loro uomo
direttamente
all’estero nel porto
di approdo della
nave. Di contratti
di lavoro, poi, vi
erano diverse
tipologie.
Innanzitutto una
precisazione: il
lavoratore
marittimo, a
differenza di tutti
gli altri
lavoratori, non
firmava un contratto
di lavoro bensì un
contratto di
arruolamento,
condizione questa
che lo vincolava
alla nave in maniera
diversa, quasi come
fosse un
militarizzato. Sulle
navi, infine, non
esisteva la figura
del rappresentante
sindacale. C'erano
comunque il
contratto a tempo
indeterminato;
quello a viaggio
(dove il marittimo
poteva essere
sbarcato alla fine
di qualsiasi
approdo); ma la
perla dei contratti
per il naviglio
minore era quello a
compartecipazione
ovvero “alla parte”,
come veniva definito
dagli addetti ai
lavori. Ovviamente
erano contratti
validissimi,
benedetti dal
Ministero della
Marina Mercantile e
dalle Organizzazioni
sindacali.