26-11-2019

Se una società fallisce che fine fanno i dipendenti?

I contratti di lavoro in caso di fallimento non si interrompono né proseguono ma si sospendono: lo stand-by resta finché il curatore non decide.

L’azienda dove lavori è in profonda crisi. I vertici parlano di probabile fallimento e di perdita dei posti di lavoro. Ovviamente la cosa ti preoccupa. Qualcuno dei tuoi colleghi però è meno catastrofico e ritiene che il rischio non sia così incombente (non almeno per tutti): secondo loro, anche in caso di fallimento, il tribunale non può interrompere i contratti di lavoro in corso o, quantomeno, resterebbero in vita quelli necessari a continuare la produzione, a smaltire le riserve di magazzino, a (s)vendere i beni non ancora liquidati. L’attivo realizzato in tale frangente servirebbe a pagare gli stipendi e i Tfr. Il dubbio però ti rimane. Così ti interroghi: se l’azienda fallisce che fine fanno i dipendenti? 

La risposta è stata fornita dalla Cassazione con una recente sentenza [1]. Prendendo spunto da tale pronuncia, in questo articolo chiariremo qual è la sorte dei contratti di lavoro in caso di cessazione dell’attività per fallimento e quali sono le conseguenze per i lavoratori che ancora non hanno ottenuto il pagamento degli ultimi stipendi e del trattamento di fine rapporto.

Fallimento: scatta il licenziamento?

La prima questione da affrontare riguarda la sorte dei contratti di lavoro: che fine fanno? Si interrompono oppure proseguono? In altri termini, con il fallimento tutti i dipendenti sono automaticamente licenziati oppure devono continuare ad andare in azienda e lavorare? La risposta è in un articolo della legge fallimentare [2]: questo stabilisce che, in caso di fallimento, tutti i contratti – ivi compresi quelli di lavoro subordinato o parasubordinato – entrano in uno stato di “quiescenza”, in altre parole si sospendono.

Il dipendente non è licenziato per il fatto stesso che l’azienda è fallita, ma non deve neanche lavorare e né può rivendicare la retribuzione per i mesi successivi al fallimento (resta ferma quella già maturata fino a un giorno prima). Insomma, tutto resta in stand-by in attesa di una decisione da parte del Curatore fallimentare, un organo nominato dal Giudice delegato al fallimento.

È il Curatore infatti che, nei mesi successivi alla dichiarazione di fallimento, stabilisce – insieme al comitato dei creditori e al giudice stesso – se proseguire l’attività aziendale (anche solo per singoli rami) o chiudere tutto.

Nel primo caso, egli può mantenere in vita tutti o alcuni dei contratti di lavoro, che pertanto riprendono regolarmente il loro corso. Nel caso invece di cessazione definitiva dell’attività, il rapporto di lavoro viene interrotto col licenziamento.

Tra la dichiarazione di fallimento e la scelta del Curatore viene meno l’obbligo di corrispondere al lavoratore la retribuzione e i contributi.

Chi paga gli stipendi non ancora corrisposti?

Passiamo ora al secondo problema: quello del recupero dei crediti per le retribuzioni di lavoro eventualmente non ancora corrisposte dall’azienda al momento del fallimento. Solo per le ultime tre buste paga c’è la copertura del Fondo di Garanzia dell’Inps: si tratta di un fondo che interviene appositamente per supplire ai debiti coi lavoratori lasciati dalle aziende in procinto di fallire.

In tal caso il dipendente deve fare una richiesta di ammissione al passivo del fallimento (vedremo a breve in che modo) e presentare la domanda di pagamento all’Inps.  Si deve trattare però delle ultime tre buste paga relative a non oltre un anno dalla dichiarazione del fallimento. Per cui, ad esempio, se un dipendente, a cui non sono stati pagati gli ultimi stipendi, era già stato licenziato due anni prima del fallimento non può farsi liquidare gli arretrati dall’Inps.

Per tutti gli arretrati di stipendi per i quali non copre il fondo di garanzia, il dipendente è considerato «creditore privilegiato»: questo significa che, dopo aver fatto l’istanza di insinuazione nella procedura fallimentare (basta una richiesta inviata al Curatore, anche senza avvocato), sarà pagato con l’eventuale attivo ricavato dalla vendita dei beni aziendali, prima di tutti gli altri creditori.

Tfr

Anche il Tfr non coperto dall’azienda viene coperto dal Fondo di Garanzia dell’Inps, secondo le stesse procedure previste per gli ultimi tre stipendi maturati entro un anno dalla dichiarazione di fallimento.

Presupposti per la liquidazione del TFR da parte del Fondo sono:

a cessazione del rapporto di lavoro, a prescindere dalla causa (licenziamento, dimissioni, fallimento stesso, ecc.);
l’inadempimento datoriale;
la conseguente sussistenza di un credito;
l’apertura della procedura concorsuale o, se il datore di lavoro non vi è assoggettabile, il tentativo di esecuzione individuale;
l’assenza di garanzie patrimoniali.

Come chiedere l’intervento del Fondo di Garanzia

La domanda di intervento del Fondo di Garanzia del TFR e dei crediti di lavoro diversi dal TFR deve essere inoltrata esclusivamente attraverso i seguenti canali:

Web – servizi telematici accessibili mediante PIN, attraverso il sito www.inps.it;
patronati, attraverso i servizi telematici offerti dagli stessi;
Contact center, tramite il numero verde INPS.

Il Fondo liquida le somme spettanti, compresi gli interessi legali e la rivalutazione monetaria entro 60 giorni dalla richiesta del lavoratore (il termine non è considerato perentorio).

Gli interessi e la rivalutazione monetaria decorrono dal momento della cessazione del rapporto e fino alla data del relativo pagamento.

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