13-10-2019

I naufragi dimenticati

Durante la II guerra mondiale i marinai tedeschi cantavano questa triste canzone, la cui prima strofa diceva così:

Sulla tomba del marinaio non fioriscono le rose,
sulla tomba del marinaio non spunta neppure un piccolo fiore,
l'unico ornamento sono i bianchi gabbiani
ed una calda lacrima che una giovane fanciulla ha pianto…

La stagione estiva è finita da un pezzo, anche se le attuali condizioni climatiche fanno dire ad ottobre che l’estate è ancora qui. Giorno dopo giorno ci avviciniamo alle festività natalizie, la ricorrenza più attesa dell’anno nel mondo occidentale da cattolici e miscredenti, insieme allo scadere di un altro anno che tra brindisi e scambio di auguri, accende la speranza, nell’animo di ognuno, di buoni auspici per l’anno a venire.
Per la gente di mare poter passare il Natale a casa con la propria famiglia è un sogno che si ripete di anno in anno, che non sempre si realizza, ma quando si avvera è come vincere una lotteria. Per i marittimi meno fortunati che in quel periodo si trovano imbarcati, le festività si condividono con i colleghi di bordo in un’atmosfera di finta allegria velata dalla tipica tristezza di chi è sempre andato per mare, lontano da casa ma col pensiero accanto alla famiglia.
Sapendo di mentire a sé stessi e agli altri, i naviganti si consolano dicendo e dicendosi, che al loro ritorno a casa ogni giorno è Natale. Ma è solo un’illusione, e loro stessi lo sanno.
Gli scambi commerciali via mare e il lavoro di bordo non conoscono tregue, e le giornate festive esistono solo sul calendario, le settimane come i mesi trascorrono tutti uguali, e tutti i giorni sono lavorativi.

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Per chi faceva il navigante negli anni ottanta non potrà mai dimenticare due tragedie del mare, che si abbatterono come calamità sulla nostra Marina Mercantile, proprio in pieno clima natalizio, su due navi di bandiera italiana, la Marina Di Equa, affondata il 29 dicembre 1981 con 30 uomini d’equipaggio, e la Tito Campanella, affondata il 14 gennaio 1984 con 24 persone d’equipaggio tra cui una donna il primo ufficiale di coperta moglie del comandante della nave.
Quello del Marina Di Equa venne definito un naufragio assistito in quanto i soccorritori, un mercantile tedesco, un peschereccio spagnolo e due aerei della guardia costiera francese, seppur accorsi in suo aiuto non riuscirono a prestarle soccorso e poterono solo assistere al suo inabissamento. L’affondamento del Tito Campanella venne definito un naufragio fantasma in quanto nessun MAY-DAY venne lanciato dalla nave e nessun mezzo navale o aereo fu testimone oculare della sua scomparsa.
Coincidenze:
Entrambe erano navi obsolete; Avevano caricato laminati in Nord Europa; Era inverno; Mare in burrasca e onde alte circa 10 metri; Sono affondate nello stesso cimitero di navi: Golfo di Guascogna; Nessun superstite,
Quest’ampia distesa di mare, molto temuta dai naviganti nel periodo invernale, ha reso spesso le sue acque teatro di innumerevoli naufragi. Da ottobre a marzo, quell’immensa vastità di oceano, porzione semichiusa dell’Atlantico nord-orientale, nel turbolento periodo di massima intensità, le sue onde possono raggiungere, anche gli 11 metri di altezza a causa delle depressioni nord-atlantiche. Le tempeste si registrano durante tutto l’anno, ma nei mesi invernali sono più frequenti e violente perché i venti da ovest agitano le sue acque e riempiono il mare di spaventosi gorghi ribollenti.

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La Marina Di Equa era partita da Anversa con destinazione Golfo del Messico, il 26 di dicembre del 1980 con il suo carico di vite umane e di merci costituite da lastre di ferro in rotoli, del peso di circa 15 tonnellate l’uno, chiamati coils (a mio avviso il carico solido più insidioso, che può stivare una nave da carico).
Il Marina Di Equa, nave vetusta e scarsa di manutenzione delle macchine, scafo e sovrastrutture, presentava gran parte delle lamiere dello scafo quasi totalmente aggredite dalla ruggine.
Quel 29 gennaio dell’81, la posizione della nave era in quelle acque irruenti, le condizioni meteomarine sulla Biscaglia non erano delle migliori, anzi i bollettini meteo prevedevano per le ore successive la tendenza ad ulteriore peggioramento delle condizioni atmosferiche.
Durante l’inverno le onde a causa delle depressioni nord-atlantiche si gonfiano sino a divenire una successione di montagne d’acqua.

Per far capire quali sensazioni possono aver provato gli uomini d’equipaggio del Marina Di Equa e del Tito Campanella prima di inabissarsi, racconto questa mia diretta esperienza:
Era passato qualche anno da quegli sciagurati eventi, mi trovai ad essere imbarcato su un’imponente portacontainer diretta in Golfo Persico dopo aver espletato le regolari operazioni commerciali nei porti del Nord Europa, già altre volte avevamo solcato quelle acque, incontrando al massimo mare forza 4/5 fastidioso ma niente di eccezionale.
In uno di quei tanti viaggi, era pieno inverno, stavamo attraversando, con rotta obbligata, il Golfo di Biscaglia, fino al primo pomeriggio di quel giorno, le condimeteo si erano mantenute discrete e stazionarie. Nel tardo pomeriggio il tempo cambiò repentinamente, le condizioni meteomarine mutarono e il mare cominciò a gonfiarsi fino a volgere in burrasca. Nel giro di poche ore mi resi conto personalmente della crudeltà e violenza impietosa delle intemperie che possono scatenarsi nel golfo di Biscaglia, e della forza devastante con cui le onde colpivano lo scafo della grande nave. I cavalloni si infrangevano contro le fiancate della portacontainer che come un pugile intontito dai colpi ricevuti dall’avversario barcollava oscillando sulle onde con ampie rollate e intenso beccheggio senza avere un attimo di tregua.
I flutti, scavalcavano il paraonde sul castello di prua, poi spazzavano il ponte di coperta fino a poppa, comprimendo le viscere e piegava le ginocchia mentre ciascuno in ogni angolo della nave doveva aggrapparsi al tientibene per cercare di restare in piedi.
Cavalcando l’onda, la prora s’impennava in alto per poi ripiombare a capofitto nella valle che gli si era spalancata davanti andando a sbattere fragorosamente contro un muro d’acqua mentre tutta la nave era percorsa da vibrazioni e oscillava fortemente per ricominciare nuovamente a fluttuare sballottata dalle onde in quella isterica danza, ed ogni volta sembrava che la prora non riuscisse a risollevarsi in tempo per affrontare una nuova montagna d’acqua. Quella tortura si ripeteva pochi secondi dopo al presentarsi di una nuova onda, e poi ancora, ancora e ancora.
Il beccheggio faceva sollevare anche la poppa facendo quasi emergere l’elica di propulsione fino a farla cavitare col rischio che si fermasse il motore a cui era accoppiata
Abbondanti masse d’acqua si riversavano anche contro la tuga fino al ponte di comando, occultando ulteriormente la visibilità e lasciando i vetri corazzati dei finestroni di plancia insulsi di salsedine.
In quelle condizioni ogni attività umana diventa difficoltosa: lavarsi, vestirsi, andare in bagno, camminare, cucinare e mangiare per chi ne avesse avuta voglia, era impresa ardua.
Nei pavimenti delle cabine e dei carruggetti era sparso di tutto, macchine per scrivere, libri, monografie, televisori, poltrone e sedie capovolte, piatti e bicchieri rotti nelle riposterie e cucine.
Intanto si era fatta notte ma nessuno dormiva, ricordo ancora bene la collera di quel mare, quando oltre al buio notturno, mare, cielo, spruzzi e pioggia erano diventati un tutt’uno e rendevano la visibilità nulla, ingannavano persino i radar i cui schermi battevano centinaia di eco da non poter distinguere quelli veri dai falsi o di eventuali navi lungo la nostra rotta, a causa delle interferenze dovute al fortunale. In pratica navigavamo alla cieca in un mare pieno di insidie.
In quei momenti qualsiasi membro dell’equipaggio, dal comandante al mozzo era attanagliato dalla paura, anche se cercava di nasconderlo, simulando nervi saldi e impassibilità, ma i nostri visi tesi e pallidi ci raccontavano tutt’altra storia. In quei momenti il pensiero di ognuno, nel proprio intimo, era rivolto alle famiglie lontane, col dubbio di non riuscire più a rivederle, ma senza mai abbandonare la volontà di doverne uscire vivi contando sulla nostra esperienza e capacità professionali. In quei momenti tutti si affidano oltre che all’Onnipotente, al cuore della nave, la sua sala macchine, e ci si rende conto che la vita di tutti era affidata al buon funzionamento dei gruppi elettrogeni e del motore principale. Un eventuale black-out avrebbe fatto fermare e traversare la nave che inerte sarebbe rimasta in balia dei marosi offrendo il fianco alle gigantesche onde accentuando il rollio con il rischio che potesse spostarsi il carico o perdere dei containers sistemati in coperta provocando l’ingavonamento della nave con il conseguente serio rischio di capovolgimento della stessa.
Queste condimeteo persistettero fino a tutto il giorno successivo.

Sul Marina Di Equa man mano che le condizioni del tempo andavano a peggiorare ed il mare diveniva sempre più gonfio, la cui forza delle onde fu stimata in mare grosso/molto grosso, con onde alte oltre i dieci metri, a causa dei colpi di mare che le si riversano sul ponte di coperta, erano stati divelti e staccati due portelli di chiusura della stiva n° 1, aprendo una fatale via d’acqua che a causa del forte beccheggio inevitabilmente si riversava nel suo interno, appesantendo la prua facendola immergere ulteriormente favorendo l’afflusso di altra acqua nel suo interno.
Causa i forti movimenti di rollio e beccheggio, non fu possibile per l’equipaggio mettere in mare alcun mezzo di salvataggio.
Alle ore 14,43 GMT (ora del meridiano di Greenwich, cui fanno riferimento tutte le navi e gli aerei del mondo) il Marina Di Equa lancia un messaggio sul canale 16 del VHF (canale di chiamata e soccorso) che diceva: SHIP ON MY PORTSIDE COME IN (Nave sulla mia sinistra, rispondete) ripetuto a brevi secondi con l’aggiunta: THIS IS A MAY-DAY CALL (Questa è una chiamata di soccorso: il vecchio SOS).
La chiamata di emergenza venne accolta dal 2° Ufficiale Hans Jurgen Wolf, di guardia sulla nave tedesca “Theodore Fontane” il quale avvisò immediatamente il comandante Dieter Hohle del MAY–DAY ricevuto da una nave italiana

Il comandante tedesco cambiò subito rotta per raggiungere la nave in pericolo, calcolando di poterla raggiungere in circa 40 minuti.
Alle 15,36 la nave tedesca e il Marina Di Equa entrarono in contatto visivo e su richiesta della nave italiana, che nel frattempo era riuscita ad invertire la rotta, mettendosi il mare in poppa, procedettero per 70° su rotte parallele con la nave Tedesca in assistenza, alla velocità di 7 nodi.
Il Comando dell’Atlantico della Marina Francese di Brest dirottò appositamente da un’altra missione un aeroplano Atlantic che alcuni minuti dopo arrivò in zona. Subito ci fu uno scambio di messaggi a tre, si apprese così che la Marina Di Equa aveva un equipaggio di 30 uomini
Alle ore 17,00 il primo velivolo venne sostituito, per fine autonomia da un altro aeroplano francese.
Ai soccorritori la nave apparve eccessivamente appruata segno che la stiva n° 1 era completamente allagata e lo specchio libero formatosi all’interno di essa influiva negativamente sulla stabilità della nave. Questa condizione di navigabilità rese la nave ancora più vulnerabile verso i marosi.
Alle 17,44 Il Marina Di Equa chiede all’aeroplano francese che l’equipaggio sia evacuato a mezzo di elicotteri, ma gli fu risposto che nessun elicottero francese poteva coprire quella distanza (oltre 300 miglia).
Alle 17,55 del 29 Dicembre 1981 le luci del Marina Di Equa scompaiono dalla vista della nave tedesca e svanisce l’eco radar: La nave era affondata, a circa 320 miglia a SW di Brest.
Il comandante tedesco in un attimo di sconforto disse al secondo ufficiale di guardia: lo avevo detto Hans. “maledetta vita la nostra, anni interi su quest’acqua amara e pochi giorni a terra per carpire affetto a una moglie ed a dei figli che ti guardano di anno in anno, di imbarco in imbarco, come uno sconosciuto, vorrei farla finita!” Ma non so fare altro che governare una nave! Poi, d’improvviso, quel gracchiare sommesso e sempre più insistente della radio: ”SHIP ON MY PORTSIDE COME IN… THIS IS A MAY-DAY CALL…” Venisti tu, Hans ad avvisarmi”: ”Herr Commander Dieter Hohle una nave è in difficoltà… Comandante, una nave italiana ha lanciato il may-day……” Mi precipitai sul ponte di comando, calcolai il tempo che rimaneva:” quaranta minuti e siamo lì” - Dio dammi di più!, pensai, gridai, pregai Arrivammo che la MARINA DI EQUA era lì, fuscello di metallo in un inferno salato, ago di bussola alla deriva senza più né nord né sud, il rumore di un aereo ci fece sperare in soccorsi che non giunsero mai in tempo,…non furono ali d’angelo a sorvolare i sogni, le speranze e il futuro di quei trenta marinai, ma quelle impotenti di un semplice aereo militare francese! A mio parere il mare inghiottì quella nave in venti, trenta secondi….Vidi il fanale rosso di sinistra e quello di maestra ancora accesi e poi delle luci nei locali sparire nell’oscurità… in quel mare di pece, vidi quelle luci affievolirsi a poco a poco e poi sparire nella notte che non prevede il sorgere di una futura alba, le onde cucirono il sudario d’acqua che finì per inghiottire tutto e tutti. Pensai alla luce che brilla negli occhi di una madre a cui danno il batuffolo appena partorito ed alla luce che si spense negli occhi delle madri alle quali comunicarono che quel figlio non l’avrebbero mai più rivisto. Pensai al figlio e alla figlia, alle mogli che aspettano con gioia, timore e trepidazione il padre e marito che scende dalla scaletta a fine imbarco ed alla solitudine di quello scalandrone vuoto, poggiato sul fianco della nave…da cui non scenderà più nessuno.
Del Tito Campanella si sa solo che è affondata in quello stesso cimitero.

(A Salty Dog)

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