"LIBERI
SUBITO"
IL
RACCONTO
DOLCE E
POETICO
DELLA
MANIFESTAZIONE
di
Basilio
Luoni
La
manifestazione
è stata
molto
partecipata,
vivace e
creativa
e questa
è una
mia
libera
ricostruzione
dell’evento,
senza
pretese
di
oggettività
cronachistica.Nei
trecentocinquanta,
ancora
rimbambiti
dal
sonno,
che alle
quattro
e mezzo
hanno
lasciato
l’isola
era
rappresentata
tutta la
comunità
isolana.
C’erano
vecchietti,
come me,
che
strascicavano
le ossa
stanche
incagliandosi
nella
predella
dell’imbarco
tra gli
improperi
di
casalinghe,
professoresse,
artiste
creative,
signore
entusiaste,
che
spingevano
e
fremevano
vogliose
di
menare
le mani,
e
c’erano
ragazzi
e
ragazze,
il
meglio
della
gioventù
procidana,
detto
senza
offesa
per i
coetanei
a
quell’ora
ancora
ignavi e
dormienti
angioletti.
E
c’erano
naturalmente
i
componenti
del
coordinamento
tra i
quali
spiccava,
energica
e
potente,
una
bionda
Giunone,
che
pareva
pronta a
sollevare
l’aliscafo
con un
dito per
scagliarlo
fino a
Roma,
bypassando
mare ed
autostrada,
fino a
farlo
atterrare
direttamente
a
Montecitorio
sulle
cape
bacate
dei
deputati.L’aliscafo
lasciava
svelto
ed
impaziente
l’isola,
mentre
la forza
piatta
del mare
calmo
favoriva
una
conviviale
discussione.
Primeggiavano
i
consigli
di
moderazione
del
Sindaco
ad una
gioventù
estremista,
che
attenta
l’ascoltava
russando
serena.
Un
saggio
Capitano,
provato
lupo di
mare, mi
bisbigliava
scettici
giudizi
sulla
scarsa
propensione
dei
Procidani
ad agire
come
comunità
solidale.
E questo
Aliscafo
chi lo
riempie?
Oh
questi,
obiettava
lui
sicuro,
non sono
carciofi
procidani.
Io però
m’addormentavo
contemplando
slanciate
e brune
gambegazzella
della
cui
procidanità
non
dubitavo.Ma
eccoci
sopra i
pullman
che
sfidano
la città
silenziosa
e
Carmen,
la
nostra
capa,
una
ragazza
dagli
occhi
vivaci
con
lampi da
strambo
folletto,
effettua
rigorosa
registrazione
dei
viaggianti.
Svelta
ed
efficiente
pizzica
con
brusca
dolcezza
i
dormienti
cavandone
note
d’identità
smozzicate,
sconosciute
ed
aliene,
mentre
s’allontana
da noi
la città
lucente
e
l’implacabile
corsa
nel
sogno
mattutino
risveglia
panze
dolenti
ed
affamate.Per
fortuna
ci
accoglie,
sollecita
e
benigna,
l’area
ospitale
Macchia
dell’Est
e la
procidanità,
accompagnata
da
quelli
di Torre
del
Greco e
di Piano
di
Sorrento
che a
noi si
sono
congiunti
arpionandoci
sull’autostrada,
riversa
la sua
massa
imponente
a
soddisfare
legittime
voglie
di
sfoglie
e caffè.
Sotto
quel
feroce
impatto
le mura
del
Rifugio
Stradale
sono per
cedere
privando
per
sempre
gli
automobilisti
presenti
e futuri
dell’ambito
ristoro,
ma prima
che
accada
il
disgraziato
evento
afferro
un
foglio
della
libera
stampa,
ben
celata
nei
pressi
della
toilette
e da
esso
protetto
mi
precipito
all’esterno.Prima
della
ripartenza
Carmen
fa un
nuovo
appello.
La sua
voce
aguzza
scardina
le
pareti
del
pullman,
i
timpani
e le
barriere
dell’autogrill
e dai
remoti
colli
anche i
lupi
ululanti
manifestano
la loro
impaziente
presenza.Eccoci
nella
periferia
della
città
che si
autoproclama
eterna,
senza
che dai
prati
circostanti
e dalle
macchie
ondulate
emergano
le
solite
pecore
brucanti
tra
sfinite
rovine
ed
inspiegabilmente
finiamo
alla
deriva
entro
una
morta
corsia
chiusa,
da
entrambi
i lati,
da
macchine
lampeggianti
pulotti
saccenti.
Si
prolunga,
più
eterna
della
città
che
attende
la
nostra
conquista,
l’attesa
durante
la quale
discussioni
serrate
e
confuse
ipotizzano
l’agguato
e il
nostro
dirottamento
verso
qualche
lurido
suburbio
ammazzaproteste.Così,
giovani
ribaldi
e
vecchietti
rancorosi,
sono per
scendere
pronti a
scotoiare
fino a
farle
volare,
sopra il
cielo di
Roma, le
ostili
volanti,
ma
fortuna
che
Carmen
si
rivela
capa
rigorosa
e
suadente
e con un
guizzo
imperiale
degli
occhi ci
trattiene
il
giusto,
quanto
basta
che poi
ripartiamo
e
finalmente
nostra è
la
città,
nostri i
palazzi
squillanti,
le vie
larghe e
rumorose,
nostro
il cielo
di Roma,
anche se
più
tristo e
meno
brillante
di
quello
di
Procida.Eccoci
qua
tutti
quanti
insieme,
gli
striscioni
dispiegati,
i
cartelli
issati,
scalpitanti
e
decisi,
pronti
all’occupazione
del
Regno
d’Ignavia.
Ci
stringono
in uno
stretto
budello,
detto
dei
Santi
Apostoli,
quattro
poveri
cristi
mandati
a
fermarci
erigendo
un
fortino
di
fragili
transenne.
E il
loro
capetto,
un
frugoletto
patetico
armato
di
radiolona
esibita
come
fosse lo
scettro
del
comando,
c’intima
di
passare
non più
di
cinquanta
per
volta,
neanche
fossimo
un
esercito
di vinti
da
sottoporre
alle
forche
caudine,
noi che
siamo
più di
mille,
quasi
duemila
per
essere
esatti
ed anche
ben
armati
di buone
ragioni.La
prima
delle
quali
l’afferma
la
pugnace
Marina,
” Non
siam
bombarole,”
grida
indignata,
” ma
mamme di
figli
prigionieri
” per la
verità
io mi
sento
più
nonno
che
mamma,
ma
tant’è
quelli
s’impuntano
e
gonfiano
i petti
vigorosi
fuori
dalle
loro
custodie,
ma ci
vuol
altro
per
impressionare
la
formidabile
Giunone
e il
magniloquento
Giaquinto,
capi
delle
nostre
schiere
ribelli.
Levato
il
braccio,
impugnano
il
fischietto
e
l’attimo
successivo
sibili
acutissimi
ci
lanciano
in
avanti
con
balzi da
levrieri.
Quasi
seduti
su
cartelli
e
striscioni,
scavalchiamo
i
pulotti,
che ci
contemplano
intotoliti,
le
bocche
spalancate,
come se
fossero
comparse
nel
cielo di
Roma
madonne
pellegrine,
o
diavoletti
cinesi,
ancora
non lo
sanno
che
qualcosa
di ben
più
pericoloso
s’è
riversato
dal mare
sul
continente:
le
Janare
di
Procida.Entriamo
correndo
nei
vichi di
Roma con
la foga
furiosa
dei
nostri
stendardi.
“Liberi.”
Gridiamo.
“Liberi
Subito!”
Sbattiamo
sulle
facce
degli
esterrefatti
passanti
la
nostra
indignazione
negando
loro il
diritto
d’ignorare
la
prigionia
dei
nostri
fratelli.“Liberi!
Liberi!
”
Continuiamo
a
ritmare,
arrestandoci
infine
al
limite
della
piazza
che
separa
il
Palazzo
che
dovrebbe
simboleggiare
Libertà.Ora
sono più
di
quattro,
ma non
molti di
più, i
forzati
dell’ordine
che si
frappongono
tra noi
e quel
Palazzo.
Ma
rispettosi
cittadini
ligi
alle
regole
non
vogliamo
sfasciare
il finto
ordine
geometrico
che si
proietta
da
quelle
mura,
non
vogliamo,
almeno
non
ancora,
occupare
quello
spazio
desolatamente
vuoto,
che nega
ciò che
proclama
di
affermare.Là
in
mezzo,
però, se
non i
nostri
corpi,
vogliamo
piantare
i nostri
simboli,
gli
stendardi
di quei
Comuni i
cui
cittadini
non sono
considerati
degni di
cittadinanza.”
Non è
possibile.
” Dice
un
cortese
poliziotto.”
Perché
non è
possibile?
””
Ordine
del
funzionario.”
” E chi
è questo
funzionario?
Vorremmo
parlarci.”
” Non è
possibile.
” ”
Perché
no.” ”
Ordine
del
funzionario.”
” C’è
Assad.
Guardate.”
Giosuè
indica
un tipo
nei
pressi
dell’obelisco,
secco e
teschiato
dalla
camicia
celestina
che pare
la copia
sputata
del
dittatore
siriano.”
Forse è
lui il
funzionario.”
Freme
indignato
il
bianco
nei
folti
baffi di
Giosuè.
” Sarà
fuggito
dalla
Siria e
unto
dall’unto
del
signore
signoreggia
ora da
queste
parti.”
” E’
lui. ”
ne è
sicura
la
veggente
Natalia.”
Basta!
Fate
passare
gli
stendardi,
o
succede
un
sortilegio.”
L’ultimatum
proviene
da Dora
e qui
son in
arrivo
dolori
perché
già
ruotano
i suoi
occhi
scarmigli
e una
lingua
di fuoco
s’attorciglia
all’obelisco
e
l’accende
accecando
i poveri
tutori
del
nulla.
Uno di
loro
leva la
mano,
non si
sa se
minacciosa,
ma Sofia
dalle
grandi
zinne
parlanti
gliela
riempie
con una
testa
mozzata.
Sviene
il
tapino
lì sul
selciato
con
grande
rumore
di
armatura
divelta,
mentre
arretrano
terrorizzati
i suoi
compagni.E
ne hanno
ben
donde
perché
ora
avanzano
le
quattro
generalesse,
i
capelli
rossi di
fiamme e
neri
contorti
serpenti
tra loro
intrecciati
ed in
pugno,
come
spade,
gli
stendardi
dei
Comuni.
Lalla,
Antonella,
Annamaria,
Marina,
nessuna
Giovanna
d’Arco
le può
emulare,
nessun
esercito
potrebbe
fermarle,
un
turbine
le
accompagna
che
avvolge
la
piazza e
la
rovescia
di
sotto,
murando
l’obelisco
nella
rocca di
Pizzaco.La
riconosco
dall’ocrata
roccia
spaccata
da nere
trasversali
ferite
profonde
e dal
mare di
Procida
che là
sotto,
cristallino
e beato,
accarezzandola
ne gode.
Il
palazzo,
le
fondamenta
divelte
vi
galleggia
sopra,
inclinato
su di un
fianco,
come una
nave in
avaria
in
procinto
di
naufragare,
mentre
al di là
delle
sue
finestre
facce
distorte
e
terrorizzate
implorano
aiuto.Alcuni,
svelti
come
gatti,
si
rifugiano
sul
tetto,
aggrappandosi
alle
statue
che
pencolano
vogliose
di tuffo
in quel
bellissimo,
insperato,
mare e
tra loro
riconoscibilissimi
ci sono
i
componenti
tutta la
banda
dell’Innominabile.
Quest’ultimo
aggrappato
alle
spalle
d’una
faccia
da
lunapiena
semprecontenta
spalanca
e
rinchiude
la
bocca,
senza
che ne
esca
alcun
suono
percettibile.”
Basta
barzellette.
”
Sibilano
le
Janare
puntando
all’unisono
gli
stendardi
verso
l’Innominabile.
Un vento
di
gelida
tramontana
investe
il
palazzo
che
ondeggia
perigliosamente,
mentre
un
guizzo
lucente
sferza
l’aria.
L’attimo
successivo
la
vivida
coda di
un
grosso
pesce
sporge
dall’innominabile
bocca
dibattendosi
furiosa.”
Masnada
di
ciarlatani
incapaci,
schiera
banditesca
di
saracini
in
perenne
fregola
truffaldina,
”
scandiscono
le
generalesse
Janare,
rivolte
ora al
Palazzo
” o
v’impegnate
fino a
schiattare
per
liberare
i
cittadini
d’Italia
delle
nostre
Comunità
e tutti
i loro
compagni
e
trovate
il modo
di
pagare i
loro
riscatti,
o
caveremo
le
vostre
budella
e le
intrecceremo
a questo
obelisco
ad
ornamento
e
testimonianza
della
vostra
impotente
supponenza.
E guai a
voi se
provate
a
scimmiottare
sceneggiate
da
sfracelli
guerreschi
mettendo
le loro
vite in
pericolo.
Aiutatelo,
piuttosto,
quel
paese
affamato.
Chiaro?
Se ci
costringerete
a
tornare
non
saranno
soltanto
le
vostre
ossa a
strillare
il
dispiacere.”
Ciò
detto
s’inabissano
in mare
le
terribili
Janare,
trascinando
con sé
la rocca
di
Pizzaco,
si
rinchiude
la
piazza
ed ogni
cosa
torna al
suo
posto.
Svetta
l’imponente
obelisco
davanti
al
palazzo,
circoscritto
nella
solita,
solida,
metafisica
aurea.”
Ci sei
anche
tu,
vecchia
cariatide.”
La voce
di
Lalla,
alle mie
spalle,
mi
risveglia,
ironica
e
punzecchiante.
Sua
figlia
ed
Antonella
le sono
accanto
ed
innalzano
decise i
cartelli
” Liberi
Subito”.
Mi
guardo
attorno
leggermente
stordito,
per
quanto i
partecipanti
siano
molto
stanchi
la
manifestazione
sta
proseguendo
con
generosità
coinvolgente.
Di
fronte
ai
poliziotti
Annamaria
e sua
figlia
lottano
per
sorreggere
il
colossale
striscione,
mentre
il
sindacalista
dei
marittimi
impenna
il
megafono
e lancia
strali e
mordaci
invettive
replicate
da cori
veementi.
Marina,
materna,
rifocilla
le
truppe
con
colossali
porzioni
di
pasta,
al
contrario
di Dora
che, in
piedi,
sonnecchia
soave.
Però,
per
quanto
la
cerchi
in mezzo
alla
folla,
non mi
riesce
di
trovare
Sofia e
le sue
grandi
zinne
parlanti.Ma
una
stranezza
risalta
a cui
nessuno
sembra
far
caso:
gli
stendardi
di
Procida,
Trieste,
Gaeta,
Torre
del
Greco e
Piano di
Sorrento,
svettano
diritti
e
trionfali,
piantati
sopra l’obelisco.La
sera
Procida
riappare,
sogno di
speranza.
In quel
sogno si
ricongiungeranno
i
fratelli
e la
collera
ritornerà
nella
notte.
Pronta
però a
riemergere
più
acuminata
delle
pietre
nelle
quali
s’è
acquattata.”
Non
dobbiamo
mollare.
”
Mormora
Marina.
E’ sul
molo e
la sua
figura
sfuggente
si
confonde
con
l’ombra
acquatica
del
pontile.No,
non
dobbiamo
mollare,
e poi
con noi
combattono
anche le
Janare.
Liberi
tutti e
subito,
li
vogliamo.
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